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2. Violeta Parra e i Mapuche: un percorso nell’attualità del “farsi indio”

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 [continua]

“Allora, mi dica… Lei è india?”

“No, mia nonna era india, mio nonno era spagnolo: quindi qualcosa delle indigene ce l’ho. Sono arrabbiata con mia madre perché non si è sposata con un indio (sorride)… Comunque lo vedi come vivo… un po’ come gli indigeni.”

Wallmapu, "la terra intorno": il paese dei Mapuche

Wallmapu, “la terra intorno”: il paese dei Mapuche

I legami di Violeta Parra con le popolazioni autoctone cilene si percepivano a pelle, è vero: nei lineamenti del suo volto, nella sua andatura decisa, nella vita che si scelse, nella concezione di un’arte al tempo stesso connessa al cosmo e alla vita quotidiana, che si materializza in quel meraviglioso mondo – incompreso dai più – che fu il suo tendone delle arti, la Carpa de la Reina, dove Violeta tentò di realizzare questa sua concezione di un’arte integrale, canale di accoglienza e di propagazione della bellezza, opportunità intensificata per scambiarsi umanità.

“Io credo che ogni artista debba aspirare ad avere come meta il fondersi, fondere il suo lavoro nel contatto diretto col pubblico. Sono molto contenta di essere arrivata a un punto del mio lavoro in cui non desidero più fare arpilleras, dipingere, scrivere poesie, così, per conto mio. Mi basta mantenere la Carpa e lavorare finalmente con elementi vivi, con il pubblico vicino a me, che posso sentirlo, toccarlo, parlargli e incorporarlo nella mia anima.” (v. Libro mayor, p. 9)

Nella concezione dell’opera-vita di Violeta non sentiamo la volontà di emergere, di distinguersi, di lasciare il segno per contrasto, che accompagna spesso i tormentati artisti del mondo occidentale: Violeta sa quello che può (e non vi rinuncia mai, a costo di sacrifici enormi), ma del suo lavoro parla sempre umilmente, collocandolo in una dimensione collettiva, tassello della ricerca di un’armonia cosmica perduta, ma che lascia affiorare frammentari ricordi.

“Sabato ho avuto 150 persone alla Carpa. C’era da mangiare per il pubblico: spiedini, empanadas, sopaipillas, brodo, mate, caffè, mistela e musica (…) Ho fatto un falò rotondo sulla terra attorno al palo centrale, molto grande. Dieci teierine e molti spiedi pieni di carne. Che meraviglia la mia Carpa ora!” (Libro mayor, 22)

araucariaGuardandomi dietro di poco, mi accorgo che, negli ultimi anni, ho abbassato pian piano le difese e ho cominciato a sconfinare: a lasciarmi abitare da storie che mi arrivavano – tante ce ne scorrono accanto – e mi risuonavano, antiche e familiari. Essere persona, nella bellissima lettura di Ute Manan Schiran, è proprio questo per-sonare, il lasciarsi attraversare da un suono, farsi cassa di risonanza e diffonderlo. L’identità si costruisce allora accogliendo, prende forma nell’ascolto e nel dialogo, anche al di là delle anguste categorie spazio-temporali del qui e ora. Persona è dunque, direi quasi etimologicamente, relazione, contatto, connessione. E Violeta lo sapeva: “se dovessi scegliere fra musica, pittura, arpilleras e poesia… sceglierei di restare con la gente”, rispondeva a una giornalista che la interrogava sulla sua arte prediletta. “Nella nostra cultura”, scrive Ute Manan Schiran, “la persona portatrice di potere/miracolo è pensata, presentata e quindi vissuta come singolo individuo. Ma nessuna/o può creare da sola/o in modo isolato.” (1) Violeta sa stare nella sua irrequietezza e abita quel suo senso di estraneità alle gerarchie e all’ordine costituiti con intensa curiosità e umiltà sapiente. “Da donne”, continua Ute Schiran, “possiamo vivere come una chance il non sentirci a casa in una visione della realtà sviluppata sopra le nostre teste dagli uomini per millenni. Invece di “cercare rifugio” all’interno di un concetto prestabilito possiamo creare, riprendere, trovare una via, che molto palesemente sta iniziando a formarsi: il proprio solitario cammino nell’EssereUnoTutto” (2): “è richiesta una decisionalità nell’affinare i sensi, come se Una dovesse districarsi nel deserto per riconoscere un pozzo che offre acqua potabile, una pianta che si presta volentieri a essere nutrimento. L’affinare i sensi per ciò che è vivo, ciò che respira, è libertario, è il presupposto per non farsi fuorviare dai miraggi e dalle proprie illusioni” (pp. 27-28). Violeta non si lascia addomesticare e la sua scelta di non avere una vera e propria casa ma di vivere accampata in un enorme tendone aperto al sole, alla musica e ai viandanti è anche simbolicamente l’espressione di un rifiuto delle convenzioni che mortificano l’estro e bloccano il vero contatto, ed è l’affermazione di un’alternativa praticabile: non lasciarsi addestrare alle regole della casa, coltivare la propria selvaticità, godere del proprio corpo, della bellezza, dell’arte condivisa, creare un punto di ritrovo, da cui irradiare luce. Illuminare una strada lasciata nell’ombra.

Violeta Parra

Violeta Parra

Tutti questi tratti ci ricollegano all’influenza che, sull’opera di Violeta Parra, ha avuto la cultura dei Mapuche, a cui, pochi giorni fa, la presidenta cilena Michelle Bachelet ha chiesto ufficialmente scusa “per gli orrori e gli errori perpetrati o tollerati dallo Stato nelle relazioni con loro e con le loro comunità”. Vedremo se questo gesto prelude a una reale trasformazione dello stato discriminatorio in cui a tutt’oggi queste popolazioni sopravvivono, è comunque un segno che il dialogo con le culture indigene della terra non può più essere rimandato. Da nessuno.

Il contatto con il mondo mapuche su Violeta si percepisce non solo al livello tematico a cui accennavo in questo scritto, parlando di brani come Arauco tiene una pena o El Guillatún, ma anche come profonda adesione a un sentire cosmico e a una rete di valori. Eppure questa influenza, sistematica e radicale, è stata trascurata, chissà quanto innocentemente, fino a tempi recentissimi, quando, nel marzo 2016, la ricercatrice Paula Miranda ha scoperto nell’archivio sonoro della Universidad de Chile a Santiago, quattro nastri con registrazioni inedite fatte nei villaggi di Millelche, Lautaro e Labranza, dove l’artista intervistò sei cantrici e un cantore mapuche, e registrò i loro canti nella lingua mapudungun. La studiosa racconta che ha subito cominciato ad analizzare le registrazioni insieme ad Allison Ramay ed Elisa Loncon: sono quattro nastri molto interessanti, ma ne manca un quinto, dove era registrato l’incontro con una machi, figura di riferimento nelle comunità mapuche, probabilmente il primo momento di grande rivelazione del mondo mapuche a Violeta, la quale, è stata molto legata alla cosmovisione indigena fin dall’infanzia, quando visse anche in Araucanía, vicino a Lautaro. Questo contatto è così fecondo da permeare tutta la sua opera: poetica, musicale e visiva. Nelle sue arpilleras troviamo elementi della natura mapuche, ma è soprattutto la sua musica a testimoniare, coi suoi ritmi, gli strumenti usati (il sacro kultrún, per esempio) e coi suoi temi, questa condivisione profonda: “la sua canzone”, dice Paula Miranda, “è sempre rituale […] non si ascolta solo, ma provoca azioni: serve a guarire, a ringraziare la vita, a innamorarsi”. La parola è l’offerta di un insegnamento, la mano che si tende per condividere gioia e dolore, la protesta. Lavoro, cerimonie, amore, esperienze di cura. “Tutto ciò che si fa si canta”, aggiunge Elisa Loncon: per i mapuche “il canto è una forma di socializzazione con l’altro e con la natura. Come un werkén che “porta la parola e raccoglie i messaggi che consegna, il canto di Violeta consegna i messaggi a chi li si deve consegnare, molte volte proprio alle autorità che attentano contro il popolo”.

Una machi e una giovane donna mapuche suonano il kultrún

Una machi e una giovane donna mapuche suonano il kultrún

La funzione rituale del canto è particolarmente evidente nel Guillatún (3) dove la voce della machi guida il rito propiziatorio scandito dal ritmo percussivo del kultrún suonato dagli abitanti del villaggio di Millelche per allontanare la pioggia che minaccia di rovinare la grande festa del raccolto, in Arauco sono nominati gli eroi mapuche che hanno resistito per secoli al colonialismo, mentre Que hé sacado con quererte è interpretato, scrive Abril Becerra, come un lamento mapuche.

Il canto è un utensile: un attrezzo per ricreare un contesto propizio agli accadimenti sottili. Ed è un canto elementale, che ha la funzione preziosa di tener presente (v. Ute Schiran, p. 42): di favorire il ricostituirsi di un humus fertile alla creazione di collegamenti, connessioni magiche, al risveglio di potenze sopite.

Le ricerche delle tre studiose sulle relazioni di Violeta coi Mapuche hanno portato, qualche mese fa, alla pubblicazione, per l’editore cileno Pehuén, del volume Violeta Parra en el Wallmapu: su encuentro con el canto mapuche, presentato a Parigi il 25 febbraio scorso. A partire dalla scoperta dei nastri e dalla testimonianza del figlio Ángel Parra, le tre ricercatrici hanno ricostruito i viaggi e il lavoro di raccolta di Violeta: vi sono fotografie con esaurienti didascalie e descrizioni della cura da etnomusicologa con cui l’artista raccolse questi canti, i loro significati e le loro funzioni, dell’amicizia che poi coltivò con molte di queste cantrici, del suo rapporto con la machi di Millelche (luminosa protagonista del Guillatún). “Si approfondisce inoltre l’enorme impatto che questo incontro con l’universo mapuche ebbe nella sua opera, dal punto di vista tematico, poetico, musicale e della comprensione del mondo”. Paula Miranda è partita da una domanda: da dove prendeva Violeta la potenza della sua opera? Ha cominciato allora a studiare i suoi brani e si è resa conto che l’implicazione con la cultura mapuche doveva risuonare molto profonda in Violeta. E come mai, pur non avendo conosciuto da vicino questo mondo, ne aveva assimilato così a fondo la cultura? Questo interrogativo era rimasto aperto nel saggio precedente della studiosa. La ricerca è stata appassionata e a un certo punto… la meravigliosa sorpresa dei quattro nastri con le cantrici e il cantore mapuche! Paula ha tentato di rintracciare queste persone: sono tutte morte, ma ci sono i familiari. Li ha incontrati e tutti avevano notizia di questa immersione di Violeta nel Wallmapu: con loro è riuscita a ricucire i fili, a dare spessore a queste informatrici che nei nastri erano solo nomi. C’è poi l’ulteriore elemento del quinto nastro scomparso, che le autrici chiamano un’“assenza-presenza”: qui, come scrivevo poco fa, è contenuto l’incontro di Violeta con una machi, curatrice e protettrice del popolo mapuche. Violeta visse nella ruca di questa donna per un mese, a Millelche: ne rimase ammirata, incantata e la sua comprensione nella cosmovisione mapuche si approfondì. Anche nel suo approccio di recopiladora così come emerge dalle registrazioni, Violeta conferma la sua sincerità, dice Allison Ramay: la sua ricerca è trasparente perché non le interessava manipolare, imbellettarla per eventualmente pubblicarla: registrò le cose così come stavano, per portarne testimonianza. Per lo studio appena pubblicato, Elisa Loncon ha costituito il fondamentale anello di congiunzione con le comunità mapuche: ha aiutato nella ricerca delle famiglie delle cantrici, ha fatto la trascrizione e la traduzione dei canti e ha contribuito a tratteggiare il contesto culturale e politico necessari a definire il significato del canto per i mapuche, portatore di messaggi di vario tipo: fatica, sentimenti, moniti, insegnamenti, denunce. A proposito del quinto nastro, quello scomparso, quello con la machi di Millelche, così commentava Valentina Fabbri Valenzuela: “La magia e il mistero della registrazione scomparsa io posso capirla, nel mondo mapuche durante le cerimonie (e relativi momenti di canto) è severamente vietato registrare o disegnare o fare foto.. quindi qualsiasi cosa ci fosse nel canto della Machi che ispirò la canzone Nguillatun, a noi non è dato sapere.. mistero della fede… che meraviglia!!!”

Un'immagine dal sito Ecompauche

Un’immagine dal sito Ecompauche

Valentina è figlia di Violeta Valenzuela, una delle fondatrici di Ecomapuche , un’associazione italiana “che promuove l’amicizia col popolo mapuche della Patagonia cilena e argentina e la solidarietà con tutti i popoli originari vittime del genocidio attuato dai governi dittatoriali e neoliberali” e che riconosce nella filosofia di vita di questo popolo un’occasione per mettere in discussione il modo di vita che ha prevalso in Occidente: malato, disconnesso, rapace e cieco.

Nel video Un poco de infinito, il filosofo e musicologo cileno Gaston Soublette, sottolinea come la mancanza di una comunità autentica, la perdita di contatto con l’ordine naturale e la perdita della trascendenza abbiano impoverito enormemente le esistenze di donne e uomini contemporanei. I ritmi naturali arricchiscono la psiche. L’esperienza della natura sia mapuche sia contadina, dice, è un’esperienza spirituale: come Violeta, di cui era amico, Gaston si dice particolarmente orgoglioso di avere tra i suoi antenati proprio i Mapuche, che seppero opporre agli spagnoli quattro secoli di resistenza. La radice di questa potenza sta, secondo lui, nella consapevolezza che stavano difendendo il paradiso. Paradiso “vegetale, tellurico, astronomico. Con un tipo umano che di questo paradiso è la grande creazione: un tipo umano speciale, con una saggezza speciale”: la parola uomo in mapudungun significa, infatti, “un cielo compresso in un corpo” e il grido di guerra mapuche è anche un’implorazione: “che mi resti l’umanità”. La ruca stessa, l’abitazione mapuche, è un modello della saggezza su come abitare la terra: i materiali sono quelli offerti dalla natura (legno, paglia selvatica, giunchi e stiance), l’orientamento verso est; al centro, grazie a un’apertura sul tetto, si può fare il kütralwe, una cucina a fuoco vivo che serve per preparare le vivande, riscaldare e impermeabilizzare, visto che il fumo, mescolato ai grassi degli alimenti, forma uno strato protettivo che ricopre le pareti interne, annerendole e dando loro un particolare odore leggermente affumicato. Tradizionalmente il fuoco era sempre acceso nella ruca e dentro di lui risiede il Ngen-kütral, lo spirito della casa. Le rucas erano costruite collettivamente: la fine dei lavori era celebrata con cibo condiviso e balli con maschere in legno.

 

La Carpa de la Reina

La Carpa de la Reina

Come non pensare alla Carpa de la Reina costruita da Violeta alla periferia di Santiago?

Nonostante io insegni lettere (alle medie), quest’anno avevo molte classi: 10 ore in una prima, in cui facevo italiano, storia e geografia, e un’ora in altre otto classi, dove facevo il cosiddetto approfondimento (o sesta ora di italiano). Nelle seconde ho scelto un percorso orientato dall’interesse che, da qualche anno, si è risvegliato per me nei confronti di quelle che qualcuno ha chiamato “culture indigene della terra” e che avevo già illustrato, al mio ritorno dal viaggio in Argentina e Cile, durante una delle conferenze del lungimirante ciclo Viaggiare la differenza! Un mondo da integrare, coordinato da Giuseppe Ferricelli di Anffas al quartiere Savena di Bologna . Nella presentazione agli studenti spiegavo che avremmo esplorato l’ipotesi che l’avvicinamento a queste diverse sensibilità sia non solo praticabile ma addirittura necessario per curare certi eccessi della civiltà occidentale, che stanno provocando danni probabilmente irreparabili alla Terra; avremmo tentato di riflettere sulla necessità di trasformare alcuni aspetti della cultura occidentale, per secoli dominante sulle altre, facendola dialogare con sensibilità e visioni del mondo diverse e, per alcuni aspetti, più rispettose degli equilibri ambientali. A maggio di quest’anno ho partecipato alla presentazione di un testo molto interessante, sintomatico di come questa apertura al dialogo con alterità fino a poco tempo fa ignorate (almeno su larga scala) o addirittura perseguitate dai governi, stia prendendo piede anche nell’ambito di un certo pensiero filosofico, significativamente non europeo né nordamericano. Nel loro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro sottolineano come la voce dei popoli amerindi e loro affini “comincia a essere ascoltata perlomeno da alcuni settori del “Nord globale” – da coloro che si sono già resi conto di come, in un modo o nell’altro, le cose questa volta possono prendere una brutta piega per tutti e ovunque” (pp. 200-201) e di come queste popolazioni possano “trasformarsi in un esempio, una “risorsa” e un vantaggio cruciale in un futuro postcatastrofico o, se si preferisce, in un mondo umano definitivamente diminuito” (201). Questo per la capacità di queste genti di educare al limite e per il contributo che sanno portare nella preparazione a un’intensificazione non-materiale, necessaria per trasformare il modo di vita del Nord schiacciante e allontanarlo “da qualsiasi tipo di fantasia di “dominio prometeico” o di controllo gestionale del mondo considerato come l’Altro dell’umanità” (205) perché è giunto – davvero e urgentemente – il momento “di trasformare l’enkrateia, il dominio o padronanza di sé, in un progetto collettivo di ri-civilizzazione. Questi popoli, dicono i due professori brasiliani, possono insegnarci a ridurre o almeno a rallentare l’Antropocene, “ponendo però questo processo all’origine piuttosto che alla fine del mondo” (215), perché “per i popoli nativi delle Americhe, la fine del mondo ha già avuto luogo cinque secoli fa”. Gli indios sopravvissuti al genocidio americano “si sono visti, in modo reciproco, come uomini senza mondo, naufraghi, rifugiati, inquilini precari di un mondo al quale non potevano più appartenere, dato che esso non apparteneva più a loro. Ma, nonostante tutto, molti tra loro sono sopravvissuti. Hanno iniziato a vivere in un altro mondo, un mondo di altri, dei loro invasori e padroni… Alcuni di questi naufraghi si sono adattati e “modernizzati”, ma, in generale, lo hanno fatto in modi che hanno poco a che vedere con ciò che intendono i Moderni per modernizzazione; altri lottano per preservare il poco di mondo che gli resta, sperando che i Bianchi non finiscano per distruggere il loro stesso mondo, quello dei Bianchi, ora divenuto il “mondo comune” […] di tutti gli esseri viventi.” (219)

Non è tuttavia soltanto come “veri specialisti della fine del mondo” che i popoli indigeni delle Americhe hanno moltoGaston Soublette

da insegnarci, ma anche perché possiamo imparare a credere di nuovo nel mondo nella sua elementalità: le parole di Gaston Soublette che citavo poco fa ci collegano piuttosto a un’origine, senza che questo contraddica la prospettiva dei due studiosi di Rio de Janeiro, invero profondamente intrisa di pensiero filosofico occidentale molto più che di familiarità con questi contesti a cui però finalmente dà un peso cruciale.

Violeta ci ha portati attraverso la sua arte in una temporalità circolare, dove la tensione verso un’armonia primigenia si concilia con un’accesa denuncia dei soprusi subiti da queste persone e con la sperimentazione di quanto l’irruzione di un sapere e di un sentire indigeni in un’esistenza per tanti versi occidentalizzata possa essere vivificante. Violeta, che chiamavo donna-pianeta e che la musicista Pascuala Ilabaca, che le ha dedicato un bellissimo tributo, descrive con queste parole: “In lei c’è tutto: la denuncia, la crudezza, la semplicità, l’analisi, la depressione e anche la passione e la creazione”. Chiasmatica coesistenza di istanze e atteggiamenti. L’abbraccio inclusivo: lo sguardo più sagace.

 

Pascuala Ilabaca

Pascuala Ilabaca

 

 

 

(1) Ute Manan Schiran, Sulla battigia del tempo – pensieri su una pratica sensual-spirituale al di là di sistemi religiosi/secolari esistenti, traduzione di Sofie della Vanth, p. 21.

(2) Ivi, pp. 22-23. In tedesco l’espressione che viene tradotta con “EssereUnoTutto” è Sein allein: la traduttrice evidenzia che “il termine tedesco ALLEIN (solo/a) contiene la parola per l’universo (ALL) e uno (EIN)” (p. 13).

(3) Qui in una versione bilingue, spagnolo e mapudungun, tributo a Violeta della cantautrice mapuche Beatriz Pichi Malen.

 

 

 

 

 

 


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